DI SOLA ANDATA

“Ancora alcuni appunti, nel work in progress dell’esistenza”

Ogni volta che mi accosto al lavoro di Pierluigi Fresia sento di riprendere un dialogo, in realtà mai interrotto. Un dialogo che non so se sia da considerarsi con lui, con le sue opere o con il tempo che le immagini e le modalità di completarle producono. In realtà è pleonastico porsi una tale domanda, per quanto le sue opere sono il tempo, quel tempo che ci unisce e ci divide, ci costituisce e ci consuma. Oggi, ma da parecchi anni in realtà, al centro della sua attenzione è l’immagine, immagine come registrazione di una situazione o condizione, che però contiene molto altro: ciò che l’ha preceduta, il fuori campo, i pensieri che la accompagnano, i ricordi su cui si costruisce e che in qualche maniera essa determina. In diverso modo penso che Pierluigi ami quella magia che trasforma il tempo in un’immagine e nello stesso tempo la combatta. La ama perché è l’esito di un’inevitabile bellezza, quella del paesaggio, delle tracce che caratterizzano i luoghi, delle luci e delle ombre che plasmano le cose. La combatte perché ogni immagine fissa un inganno, diventa cosa a sé, risulta irriducibile alle ragioni da cui scaturisce.

Quell’immagine, che registra e contiene il tempo, si porta via la sensazione reale delle cose, la loro fragranza. Sono considerazioni che tanta letteratura teorica sulla fotografia ha considerato o messo in luce, ma che possono essere richiamate, al di là delle considerazioni sul dato specificamente fotografico, per avvicinare il più complesso e nello stesso istintivo meccanismo che Fresia attua.

Per questo, anche se parziale, l’attenzione per la dimensione fotografica nell’opera di Fresia ha bisogno di altro, di sottrarsi all’evidenza dell’immagine, per introdurre un secondo tempo e un secondo spazio. Non più quello dell’attimo nella sua manifestazione visibile, ma quello dell’interiorità o dell’ulteriorità in cui i soggetti evocano altre condizioni. Il suo intervento è allora chirurgico e, come i tagli delle “Attese” di Fontana, va a produrre uno scarto, creando una separazione. Quella che mi parrebbe di poter indicare come una separazione dell’immagine dalla fotografia. L’immagine è quel dato immateriale, quella situazione che ci conquista, sia essa prodotta meccanicamente, colta fugacemente, fisicamente registrata, ma non coincide necessariamente con la fotografia, oggetto compiuto e determinato. Questa distinzione è fin troppo materiale, in un’epoca in cui l’immaterialità delle immagini ha rivelato a tutti la labilità del rapporto fra visivo e immaginario, oltre che la permeabilità e la densità della loro diffusione in ogni atto vitale. Nel modo di operare di Fresia, però, la distinzione tra fotografia e immagine non è solo un fatto di configurazione, ma una azione più sottile, che mette in gioco la funzione dell’immagine. Essa non è fine a se stessa, ma è una superficie, attraente, che ci incapsula e ci porta in un’altra condizione. Da dove vengono queste immagini? Certamente da uno sguardo che le ha raccolte, da un incontro cercato o trovato, ma è come se scaturissero da sé, da qualche luogo nel tempo che è memoria imprecisabile. Dal sogno, forse, o dalla creazione letteraria, anche. Come se si fossero manifestate in una maniera indecifrabile, senza un’origine riconoscibile. Sono immagini e non più o non ancora “fotografie”, in quanto si collocano in una condizione sospesa, che sta al di là della consistenza di realtà che la “fotografia” in ogni caso comunica. Eppure sono immagini pregnanti, dotate di una loro efficacia, di una forza persuasiva, nostalgica, momenti che trasmettono il senso di una corrispondenza nascosta con le cose. Il tentativo di sanare quella separazione, quel senso di ferita che il rapporto fra l’immagine e quell’imponderabile evocato rende sensibile, è forse da intendersi negli inserti che indicano una dimensione altra: le parole, le frasi, le citazioni spesso misteriose, non immediatamente legate a ciò che vediamo, ma destinate ad attribuire un altro possibile spazio di significato al tempo che l’immagine è. Forse l’esempio più eloquente, nella sua enigmaticità, è proprio nelle note e negli “ibidem”, che si insinuano fra le pieghe delle luci e ombre che costituiscono le immagini per come le percepiamo. Sono segni che rimandano ad altro, senza poterlo specificare, un altro che si perde in una circolarità di infinito, ma che da qualche parte è o potrebbe essere, superando la dimensione dell’immagine, all’interno della quale si nasconde. Un altro, un altro tempo, un altrove, che possiamo immaginare, ma non toccare, di cui non ci si può appropriare, nemmeno come ricordo.

Il senso del possibile si affianca poi alla sensazione del vuoto. Quella che parallelamente Fresia mette a fuoco nel fotografare delle lavagne vuote o nell’immaginare di perdere lo sguardo nelle incommensurabili distanze celesti, praticate idealmente da quegli uccelli che, librandosi sulla terra dall’alto, sembrano perdersi nel cielo. Il vuoto, come non-tempo, più che non-luogo, è forse la dimensione che sta dentro e fuori le sue immagini quando diventano fotografie, rappresentazioni visibili di uno stato momentaneo, di una figura o una forma che non può mai dire quale e quanta realtà si possa trovare dentro un frammento, per quanto sia bello, enigmatico, infinito, inquietante, sublime, di fronte al quale si coglie una immediata e inspiegabile empatia.

Galleria Riccardo Costantini Contemporary

a cura di Francesco Tedeschi

Torna in alto
Torna su